giovedì 7 maggio 2015

In Biblioteca arrivano i tonni: l'archivio D'Amico-Faranda



L’Archivio Storico comunale di Milazzo si arricchisce di un nuovo preziosissimo fondo. Grazie alla disponibilità della famiglia Faranda, nelle lussuose sale della Biblioteca comunale sarà possibile consultare gli antichi manoscritti dei marchesi D’Amico. Un’imponente raccolta di antiche carte che documenta perlopiù l’affascinante storia delle tonnare cittadine e non solo, in particolare di quella del Tono che i marchesi D’Amico, generazione dopo generazione, calarono sino al 1966, quando si chiuse il sipario sulla millenaria pesca del tonno nelle acque di Milazzo.








Un fondo archivistico che ripercorre l’intera storia della Tonnara del Tono, sino ai secoli più recenti, quando - per iniziativa di alcuni imprenditori liguri - si registrò la nascita dei primi opifici per l’inscatolamento del tonno all’olio e l’impianto, di lì a poco, del più ampio e moderno stabilimento, oggi adibito a residence, iniziative che conferirono alla secolare tonnara - che i D’Amico gestirono per lungo tempo in comproprietà coi Calapaj - una dimensione quasi industriale. Preziose carte d’archivio, che, oltre a testimoniare la complessa gestione patrimoniale (passaggi di proprietà, testamenti, pesi e gravami di origine tributaria e testamentaria), documentano con dovizia di dettagli – purtroppo solo dalla seconda metà dell’Ottocento – l’affascinante quotidianità della tonnara, dagli approvvigionamenti di reti e cordami alla gestione del personale, dai quantitativi del pescato alla stipula dei contratti di obbligazione per collocare il pesce catturato nei mercati locali.


Scampoli documentari che consentono altresì di ripercorrere gli ultimi tentativi di calo di altri piccoli impianti di pesca: è il caso della Tonnarella di S. Antonino a Capo Milazzo o della Tonnara di Calderà. Senza trascurare l’altro grande impianto di pesca, la Tonnara di Milazzo, già in crisi nella prima metà dell’Ottocento e fagocitata di lì a poco dall’avanzamento dell’infrastruttura portuale. Straordinarie fonti d’archivio da oggi a disposizione di studenti e studiosi. Un’imponente mole di informazioni e notizie che ha già consentito di allargare le conoscenze sull’affascinante e cruenta pesca del tonno in un volume che, nato in collaborazione con la stessa Biblioteca comunale, sta per essere consegnato alle stampe, ultima scommessa dell’editore Lombardo.


All’ing. Tommaso Faranda ed agli altri eredi dell’ultimo marchese D’Amico va dunque l’affettuosa riconoscenza della collettività milazzese. Un’iniziativa, la loro, che se da un lato non priva la famiglia della proprietà dei fondi archivistici – concessi al Comune in comodato – dall’altro consentirà ai cittadini interessati (studenti e studiosi) di accedere agevolmente e comodamente ad un’interessante pagina di storia economica. Un esempio che si spera possa essere imitato anche dalla famiglia Calapaj, detentrice di un’altra interessante fetta d’archivio sulla Tonnara del Tono, le cui carte meriterebbero di fare bella mostra – anche semplicemente in versione digitale – accanto agli eleganti manoscritti consegnati dai D’Amico-Faranda.


Da parte sua l’Amministrazione comunale celebrerà la consegna ufficiale del nuovo fondo archivistico venerdì 22 maggio, nel piano nobile della Biblioteca, un tempo lussuosa dimora proprio dei marchesi D’Amico. L’evento, inserito nell'ambito del "Maggio dei Libri", inizierà alle ore 18,00 alla presenza del sindaco Pino e dell’assessore Scolaro.

venerdì 17 aprile 2015

Risorge al Capo sentiero «‘u ‘nfennu e u paradisu»

Riscoperto grazie ai volontari antico sentiero a Capo Milazzo



Sino a qualche giorno fa c’era soltanto una tabella lignea che lo additava ai passanti. Unico indizio che ne lasciava presupporre la presenza tra l’intricato groviglio di sterpaglie, rovi e vegetazione spontanea. Il sentiero ‘u ‘nfennu e u paradisu collega il poggio di Monte Trino a contrada Manica e grazie all’infaticabile opera di volontariato di Ciccio Trimboli, coadiuvato dall’encomiabile buona volontà di Piero Aricò, è stato restituito proprio in questi giorni alla pubblica fruizione, a disposizione dei Milazzesi e soprattutto - visto l’approssimarsi della stagione estiva - di turisti e visitatori, alla scoperta di uno degli angoli più incantevoli e suggestivi del Promontorio.

Un lungo profumatissimo e coloratissimo percorso che, in questi splendidi giorni di tepore primaverile, si snoda tra le svariate peculiarità naturalistiche del Capo, tra le eleganti varietà della flora spontanea - tra tutte l’Euforbia arborea (Euphorbia Dendroides) – e lo sguardo incuriosito di quelle faunistiche, come il coniglio selvatico.

 Il geom. Ciccio Trimboli al lavoro 
(foto Nicola Mento)



Il sentiero s’imbocca lungo la stradella in salita che conduce a Monte Trino, proprio dove l’omonima traversa di via Trinità si piega ad angolo retto. La targa lignea, affissa oltre un decennio fa dall’Azienda Autonoma Soggiorno e Turismo, nell’indicarne il percorso non manca di additare le specie faunistiche rintracciabili lungo il cammino, che inizialmente si snoda tra due tradizionali muretti a secco (armacìe) - uno dei quali alto in qualche punto oltre 3 metri! – delimitanti le attigue proprietà private. Il percorso tra la campagna termina laddove un altro cartello turistico indica Punta Grottazza, denominazione che trae origine dalla grotticella che sovrasta il roccioso e selvaggio dirupo. Qui un’altra armacìa guida l’escursione in direzione sud, verso la Manica, dove il sentiero giunge al termine, non senza prima riservare al visitatore meravigliosi scorci panoramici con Punta Messinese e le Eolie sullo sfondo. E’ il tratto più spettacolare, ma nel contempo più impervio (da cui verisimilmente la denominazione che accosta l’inferno al paradiso), un pericolo comunque lenito da qualche cima saldamente ancorata alla roccia dai volontari che da un decennio a questa parte (a partire dalla meritoria ed indimenticabile opera di Legambiante) hanno consentito al sentiero di sopravvivere.

(foto Nicola Mento)

Da qualche giorno è possibile dunque riassaporare le meraviglie offerte da questo incantevole sentiero, la cui percorrenza necessita calzature adeguate e bastone da trekking. L’opera di Ciccio Trimboli e Piero Aricò non può certo considerarsi esaustiva: quattro braccia certamente non bastano per rimettere in sicurezza un sentiero che richiederebbe un serio intervento finanziario, oltre che personale e mezzi adeguati per la sua scerbatura. Pur tuttavia, considerando il confronto tra come il percorso si presentava prima del loro intervento e come si presenta adesso, sorge quasi il dubbio che non siano stati soli nell’opera di pulizia. Una fatica immane che si giustifica soltanto con l’amore infinito che Ciccio Trimboli nutre nei confronti della sua Milazzo, rarissimo esempio di ex amministratore comunale che continua a servire – peraltro appassionatamente, oltre che gratuitamente - la propria Città anche dopo la fine del mandato. Grazie di cuore, geometra Trimboli.


 Le altissime armacie ad inizio sentiero in contrada Monte Trino


 Punta Grottazza


Punta Grottazza
 
L'impervio sentiero rimanda ai gironi infernali

(foto Nicola Mento)

Sul far della sera

Scorcio paradisiaco
(foto Nicola Mento)
 
 Resti di casetta con muri a secco. Si affaccia su un panorama mozzafiato.


  Una delle cime che coadiuvano il visitatore
(foto Nicola Mento)

In prossimità della Manica

La Manica con vista sul Tono


L'accesso al sentiero in c.da Manica, alle spalle dell'ultima abitazione
 (foto Nicola Mento)

giovedì 11 dicembre 2014

Bosco, Pino e le polemiche sotto l'albero.


Il titolo farebbe piacere al mio amico arch. Aveni, dirigente dell'Aziende Foreste. Si tratta di un piccolo intervento per rispondere ad alcuni amici che chiedono lumi sulla figura di Bosco. Non trovo nulla di antipatico nell’intitolazione, da parte dell’Amministrazione Pino, di una strada al generale borbonico (lo sconfitto della battaglia garibaldina del 20 Luglio 1860 per intenderci), che anzi potrebbe essere interpretata in chiave riconciliatoria. Tanto più che, contrariamente a quel che si potrebbe pensare, era persona molto stimata dall’uomo simbolo del nostro Risorgimento. Mi riferisco all’illustre milazzese Stefano Zirilli, di cui riporto di seguito qualche passo significativo di una sua operetta pubblicata nel 1884. In chiave riconciliatoria abbiamo pensato e ideato anche il centenario della Grande Guerra, commemorando Otto Jank, ufficiale austroungarico deceduto per malattia in seguito a detenzione nel campo di prigionia del Castello di Milazzo. L’ufficiale riposa oggi nel nostro Cimitero. Riconciliazione dettata dal comune sentire europeo che oggi anima la nostra politica estera. Oggi, con l’Europa unita, la Grande Guerra può essere considerata come una vera e propria guerra civile. Giusto pertanto commemorare anche i nostri nemici di allora. Una guerra civile, dunque. Altrettanto lo era il conflitto tra garibaldini e borbonici. Ben venga dunque lo spirito riconciliatorio, se questo (come mi auguro) è stato lo spirito che ha animato la delibera della giunta municipale. Giusto quindi commemorare anche il Bosco con l’intitolazione di una pubblica strada. 

Di antipatico, invece, trovo soltanto le strumentalizzazioni sull’intitolazione a Bosco da parte dei cosiddetti neoborbonici, che continuano a screditare la nostra storia risorgimentale. E’ grazie allo Stato unitario che si è messo in moto quel processo liberale che ci ha dotato di una costituzione (lo Statuto Albertino) e di libertà politiche, che, nel caso del diritto di voto, si sono via via evolute sino al traguardo del suffragio universale nel ’46. Il monarca Borbone non mi pare fosse ben disposto a concedere questo genere di libertà. Se dunque gli amici neoborbonici oggi si permettono il lusso di criticare, lo fanno proprio grazie alle libertà concesse dai tanto vituperati Savoia. Oggi, grazie a Dio, viviamo in uno degli stati europei economicamente più floridi (malgrado la crisi in atto), ma soprattutto in una Repubblica democratica fondata su una carta costituzionale figlia proprio dello Statuto Albertino. Malgrado tutto (fascismo e fuga del sovrano compresi) i Savoia ci hanno consegnato uno Stato alquanto dignitoso, evolutosi in quella stessa repubblica democratica, la quale, malgrado le presunte ruberie postunitarie ai danni del Sud (ma quanti investimenti ha sperperato il Sud nel secondo dopoguerra?), consente oggi d’intitolare una strada al generale borbonico Bosco.

La sera del 19 luglio 1860, ritornando dal campo di Merì, dove alloggiava Garibaldi, l’illustre milazzese Stefano Zirilli riceveva l’invito del generale Bosco, suo vecchio amico, al fine di presentarsi per un colloquio nel Quartiere generale borbonico entro il Castello di Milazzo. «Fu allora che ricordandomi de’ pieni poteri datimi da Medici – avrebbe scritto Zirilli 24 anni dopo – mi offersi mediatore fra lui e Garibaldi, anche se avessi dovuto svegliarlo di notte nel Campo di Medici. Perorai per più d’un’ora, senza altra risposta che sempre queste precise parole: “Lo so che sarò battuto, epperò ho voluto parlarti prima; ma farò fino all’ultimo il mio dovere. Mi offenderesti continuando ad insistere”. Fu allora che presi commiato da lui, che non ho mai più riveduto. Da quel momento – continua Zirilli - ebbi per Ferdinando Bosco cento volte più stima e di affetto che non ne’ 34 anni precedenti di nostra fraterna amicizia, e fra me dicevo: ecco almeno un carattere fermo ed intero fra tanta rovina di uomini e di fede! Ci abbracciammo commossi e con le lagrime agli occhi, né quella intima conferenza è mai svanita dal mio cuore e dalla mia mente, lieto di potere oggi adempiere la promessa allora fattagli di informare il mondo de’ suoi sentimenti intimi in quelle ore supreme. Spero bene che questa schietta manifestazione di un vecchio, innanzi la tomba del suo amico (Bosco era deceduto tre anni prima, ndr), vicino a raggiungerlo, abbia la virtù di modificare il rapporto inesatto del Buttà e degli scrittori che l’hanno preceduto e seguito».

domenica 30 novembre 2014

Le uova di tonno (bottarga)





Il loro procedimento di lavorazione venne descritto dettagliatamente dal duca d’Ossada nel lontano 1816. «Da allora è rimasto immutato», assicura l’esperto salatore milazzese Domenico Vitale. Le fasi di lavorazione descritte dall’aristocratico duca milazzese, proprietario della Tonnara di S. Giorgio di Gioiosa Marea e condomino delle Tonnara Grande del Porto di Milazzo e della Tonnarella di Vaccarella, trovano infatti applicazione ancor oggi, nella storica Pescheria di Milazzo. L’ova ‘i tunnu (bottarga), vera e propria prelibatezza della gastronomia locale, vengono grattugiate sulla pasta oppure tagliate a fettine da servire come squisito antipasto. 

 IL VIDEO




 Uova di tonno fanno bella mostra, assieme alla ventre di tonno, nella pescheria Il Norvegese di Stefano Vitale, nella foto qui sopra in mezzo accanto al padre Domenico, l'esperto salatore milazzese cui dobbiamo alcune delle informazioni qui riportate.



«La loro lavorazione ha inizio a giugno», ricorda Domenico Vitale, che aggiunge: «impiegando un imbuto si riempie ciascun uovo dall’alto con salamoia (sale grosso e acqua), avendo cura di palpeggiare per bene l’uovo in modo tale da far scorrere la salamoia al suo interno. Si lascia quindi riposare il tutto per 24 ore, trascorse le quali si fa uscire la salamoia precedentemente introdotta, strofinando successivamente ciascun uovo col sale grosso. A questo punto le uova vengono poste sotto peso, nel gergo milazzese si dice “sotto carica”, o in batteria, impiegando due grandi tavolacce, oppure singolarmente entro apposite cassettine. Per una decina di giorni alle uova, così sistemate, viene a giorni alterni sostituito il sale: quello usato viene infatti rimpiazzato da sale nuovo, col quale si strofinano l’ova ‘i tunnu. Terminata questa fase, le uova vengono lasciate sotto carica, senza subire nessun trattamento, per altri 40 giorni, terminati i quali vengono sottratte dal peso delle cariche (di norma pietre e/o sacchi di sale) ed appese ad essiccare per un periodo che oscilla dai 20 ai 40 giorni, a seconda delle dimensione delle singole uova: più sono sono grandi, più lungo sarà il tempo necessario per la loro essiccazione.  In autunno le uova così preparate sono già pronte per essere commercializzate». 


La bottarga grattugiata sulla pizza, in una ricetta di Marcello Esposito (a destra), 
ristoratore milazzese di orgini campane.


Un procedimento che corrisponde quindi a quello descritto nel 1816 dal duca d’Ossada, il quale non manca altresì di descrivere le singole fasi di macellazione del tonno. Trasferiti a terra dai palischermi, i tonni venivano infatti sottoposti alla lama affilata della mannaia, tagliando la grassa golilla, ossia la punta delle surre posta in prossimità della gola. La golilla veniva destinata alla salatura. Successivamente, impiegando la stessa mannaia, i tonni oltre un quintale di peso venivano decapitati ed appesi per la coda nella loggia (appiccatoio), dove in primo luogo venivano sciacquati con acqua di mare. Tra il prelievo della golilla e la decapitazione con la mannaia c’era una fase intermedia, ossia lo sventramento del tonno, che dunque veniva scogliato - per dirla con le parole del duca d’Ossada - ad opera di un marinaio che con un coltellaccio si metteva a cavallo del tonno, aprendolo a poco a poco per prelevare le interiora (anchiùma nel dialetto milazzese): «apre il tonno dalle sorre fino all’ombelico: leva dalla pancia l’inchiuma, così chiamati gli uovi, li lattumi, ventri e budella». Operazione eseguita da colui cui spettava scogliare il tonno, «termine che si dà per questa operazione, e si chiama scogliare li tonni, vale a dire aprirli e levare l’inchiuma da ha dentro». Un termine, scogliare, che pare essersi perduto nel tempo, oggi infatti i rigattieri milazzesi usano piuttosto la parola svintrari o piuttosto sfugghiari (sfogliare). Forse sfogliare è la proprio la corruzione di "scogliare". E' certo, comunque, che lo sventramento doveva essere eseguito da persona abile e competente, onde evitare che durante il taglio potessero danneggiarsi le interiora, che al contrario andavano prelevate integre.

Marinaio a cavallo del tonno per nèsciri anchiùma
ossia per prelevare le interiora, tra cui l'uovo di tonno
(Tonnara del Tono - Milazzo, anni Cinquanta,
fonte Li Greci, Berdar, Riccobono, Mattanza, GBM, Messina 1991)


 Decapitazione del tonno con la mannaia
(Tonnara del Tono - Milazzo, anni Cinquanta,
fonte Li Greci, Berdar, Riccobono, Mattanza, GBM, Messina 1991)



 Lavaggio del tonno appeso nell'appiccatoio (loggia) dopo la decapitazione
(Tonnara del Tono - Milazzo, anni Cinquanta,
fonte Li Greci, Berdar, Riccobono, Mattanza, GBM, Messina 1991)


 Appiccatoio della Tonnara del Tono di Milazzo, dopo l'abbandono
(Massimo Lo Curzio, L'architettura delle tonnare, Edas, Messina 1991)







Proprio durante questa fase si prelevavano nelle tonnare milazzesi le uova di tonno, opportunamente salate ed essiccate come ricorda minuziosamente lo stesso duca d’Ossada. Le uova, così come le ventri e le budella, ma anche il lattume, venivano consegnate dallo sventratore ad una persona di fiducia di padroni e rais, il capoguardia della ciurma, il quale a sua volta avrebbe consegnato le preziose interiora destinate a diventare bottarga da commercializzare «nel magazzino al curatore degli uovi, il quale li mette in sale nelle tine e poi, l’indomani, si levano dal sale e si situano sopra tavoloni fatti all’intorno del magazzino destinato per questo genere, con mettere sopra le dette tavole delle pietre per la carica: si fa uscire tutta l’acqua e l’umore che hanno dentro e di giorno in giorno si pulizzano, si mette nuovo sale e nuova carica per ridurle al proprio stato di perfezione; e quando poi sono bene induriti si levano dalla carica e legati a due si mettono nelle corde, a tale effetto situate in un magazzino per asciuttarli;  e questi uovi si vendono a tarì 12.10 ed otto il rotolo secondo sarà la pesca di quell’anno».


La mannaia impiegata a Milazzo tra le due guerre mondiali 
nella Tonnarella di S. Lucia di Stefano Del Bono



martedì 18 novembre 2014

Il Mamertino tra storia e fantasia




Intorno alla metà dell’Ottocento si fece apprezzare in Italia ed all’estero la produzione di vini da dessert, allora denominati perlopiù vini di lusso o liquorosi, della ditta Giuseppe Zirilli & F., amministrata da uno dei figli più illustri di Milazzo, il patriota Stefano Zirilli.

Quasi tutti i vini da dessert prodotti nella «fattoria Zirilli» erano ricavati dal vitigno allora coltivato quasi esclusivamente nella Piana di Milazzo, il Nocera, che rappresentava la base della produzione degli apprezzati vini da taglio e da mezzo taglio della suddetta Piana. 




Dal Nocera si ricavava dunque anche un vino liquoroso, il Mamertino, la cui denominazione rimandava inevitabilmente alle fonti dell’antichità, dalle Epistole di Giulio Cesare a Plinio e Strabone, che non mancarono di tributare sincere lodi a questo vino prodotto negli ampi possedimenti messinesi dei Mamertini. Del Mamertino prodotto da Stefano Zirilli dalle uve Nocera non si hanno ulteriori informazioni: è certo comunque che la sua produzione venne abbandonata con la cessazione dell’attività dello stesso Zirilli, soffocata tra l’altro dalle pesanti tariffe dei noli, applicate dalle compagnie di navigazione sovvenzionate dallo Stato, che rendevano poco convenienti le piccole spedizioni in casse da 25 bottiglie.



La produzione del Mamertino riprese per iniziativa della locale Cantina Sperimentale intorno alla fine degli anni Venti del Novecento. In verità, l’ente milazzese non fece altro che attribuire la denominazione “Mamertino” ad un vino liquoroso che in quegli anni si produceva nelle colline intorno a Castroreale Bagni, un vino da dessert che, a differenza degli altri vini liquorosi, non necessitava di aggiunte di alcool che ne conservassero la dolcezza e ciò rappresentava indubbiamente un notevole vantaggio economico, consentendo di risparmiare sulle spese di produzione[1]. I vini liquorosi di Castroreale - ottenuti vinificando le uve locali dei vitigni Pedro Ximenes (denominato anche Grenache bianco), Catarratto ed Inzolia - erano dolci e gradevolmente profumati[2]. Con l’invecchiamento ricordavano il Porto e raggiungevano naturalmente elevate gradazioni alcooliche, che oscillavano di norma dai 16 ai 18° e che mai scendevano al di sotto dei 15°[3].

Queste sorprendenti caratteristiche spinsero la Cantina Sperimentale di Milazzo a credere che il vino Mamertino tanto decantato dalle fonti dell’antichità fosse proprio quello liquoroso prodotto nelle colline di Castroreale[4]. Eccezionali, in particolare, erano i vini prodotti nella contrada Sulleria del suddetto comune di Castroreale[5], dove in occasione delle vendemmie 1931 vennero ottenuti, con normale fermentazione alcoolica, vini di 17,40°, in quello stesso anno esposti all’importantissima mostra vinicola di Siena, «sotto gli auspici» della Cantina Sperimentale di Milazzo[6]. «Non è certo facile spiegare quali possano essere le cause che contribuiscono ad ottenere dalle uve di quelle località una ricchezza alcoolica, diremo quasi, eccezionale», scriveva nel 1934 il direttore della locale Cantina Sperimentale Trofimo Paulsen, che precisava: «oltre la natura del terreno, l’esposizione ecc. non è forse interamente da escludersi il fatto che quel bacino orografico è ricco di polle di acque termali che hanno grandissimo valore terapeutico per la ricchezza di minerali che contengono, quali ferro, litio, zolfo e sostanze alcaline»[7]. Fu proprio sulla base di tali considerazioni, che il Regio Vivaio Governativo di Viti Americane di Palermo, diretto magistralmente da Federico Paulsen, fratello di Trofimo, decise di impiantare proprio a Castroreale, accogliendo così le istanze insistenti dello stesso Trofimo, il più importante vigneto sperimentale della provincia di Messina, ancora in esercizio nel secondo dopoguerra[8]



Il TG1 delle 20,00 del 7 aprile 2014 ha celebrato il ritorno della grande vitivinicoltura a Milazzo. Nel servizio sul Vinitaly, un'intervista a Francesca Planeta. E, per la prima volta, una bottiglia del Mamertino prodotto al Capo nei vigneti della Baronia dei Lucifero, con un'etichetta ancora appena abbozzata nella quale viene indicato l'impiego del Nocera, il vitigno milazzese da cui nell'Ottocento si ricavavano nella Piana di Milazzo - come ebbe a sostenere nel 1888 Ottavio Ottavi, mostro sacro della viticoltura - i migliori vini da taglio del mondo.

L’opera meritoria della locale Cantina Sperimentale sin dagli anni Trenta fu rivolta costantemente ad assicurare al Mamertino di Castroreale l’onore della bottiglia, favorendo contestualmente la costituzione di un «consorzio per la protezione del tipo». Furono diverse le esposizioni alla mostra di Siena di bottiglie di Mamertino imbottigliato dalla suddetta Cantina Sperimentale: oltre a quella già riferita del 1931, sono documentate esposizioni alla mostra senese nel 1939 e nel 1951. L’opera di propaganda della locale Cantina Sperimentale emerge altresì dai doni di bottiglie di Mamertino (luglio 1951) a favore di politici influenti, quali Luigi Sturzo, al quale le bottiglie vennero spedite al domicilio romano di via Mondovì, e l’on. Silvio Milazzo, che ricevette il Mamertino a Caltagirone[9].

Nonostante gli sforzi compiuti dall’ente milazzese, il consumo del Mamertino di Castroreale non riuscì comunque a scavalcare il ristretto ambito locale, dove non mancò chi, negli anni Trenta, tentò di spacciarlo per Malvasia[10]. Ciò nonostante la campagna promozionale della Cantina Sperimentale di Milazzo proseguì ancora negli anni Sessanta, quando Girolamo Bambara - ribadendo che il Mamertino di Castroreale derivava dalla vinificazione di uve Pedro Ximenes, Catarratto ed Inzolia - lo consigliava quale «compagno inseparabile dei classici dolci messinesi: la “pignolata”, il “torrone gelato”, i dolcissimi “cannoli” e la “Cassata alla Siciliana”, completano l’euforia conviviale quando è servito a fine pasto, dopo i dolci o al dessert, a temperatura di ambiente, in classici bicchieri a calice trasparente dalla bocca ristretta perché meglio se ne possa apprezzare il “bouquet”»[11]. Proprio negli anni Sessanta la Cantina Sperimentale di Milazzo aveva fatto stampare su uno sfondo giallognolo un’elegante nuova etichetta, da applicare sulle bottiglie di propria produzione, in cui il vino prodotto nelle colline di Castroreale veniva presentato con la gradazione alcoolica di 15° e con queste parole: «il Mamertino è un vino classico che opportunamente invecchiato è da preferirsi, per le sue caratteristiche, a fine pasto o al dessert».

Bottiglie di Mamertino in esposizione c/o lo spazio museale sulla 
Piana di Milazzo allestito nell'ex Carcere Femminile di Milazzo (Ican "Domenico Ryolo")

Recentemente si è registrata una rinascita del Mamertino. Sulla scia delle iniziative promosse in passato dalla Cantina Sperimentale di Milazzo, per iniziativa del presidente della sede milazzese della Confederazione Italiana Agricoltori (Cia) Biagio Cacciola e di alcuni tecnici e produttori locali, in particolare i Vasari di Santa Lucia del Mela, intorno al 2001 è stata avviata la pratica rivolta al riconoscimento dell’ambita denominazione di origine controllata (Doc), ottenuta con decreto adottato dal Ministro delle Politiche Agricole e Forestali in data 3 settembre 2004, decreto in cui è stata approvato altresì il relativo disciplinare di produzione[12]. Sinceramente desta non poche perplessità il riconoscimento della Doc ad un vino, impropriamente denominato «Mamertino di Milazzo», che quasi nulla possiede delle caratteristiche indicate in precedenza e riguardanti le produzioni delle colline di Castroreale. Il decreto disciplina non vini da dessert, quali erano appunto il Mamertino di Castroreale o quello prodotto a metà Ottocento da Stefano Zirilli, bensì vini da pasto, prodotti - senza l’utilizzo delle uve Pedro Ximenes di Castroreale, ma con l’impiego, tra l’altro, del Nocera di Zirilli - nelle tipologie Bianco, Bianco Riserva, Rosso, Rosso Riserva, Calabrese o Nero d’Avola, Calabrese o Nero d’Avola Riserva e Grillo-Ansonica.

Nonostante il Mamertino di Milazzo Doc sembri piuttosto un’artificiosa e fantasiosa creazione dei giorni nostri, va comunque riconosciuto, a quanti si sono adoperati al fine di ottenere la concessione della Doc, il merito indiscusso di aver tentato di rilanciare la produzione vinicola di Milazzo e dintorni. D’altra parte, tornando alle fantasie, occorre precisare che queste non mancarono nemmeno a Trofimo Paulsen ed ai propri collaboratori, allorquando nei lontani anni Venti decisero di attribuire la denominazione «Mamertino» - ricavata dalle fonti dell’antichità - al vino prodotto nelle colline di Castroreale.

 



[1] T. Paulsen, I vini tipici della provincia di Messina, Grafiche “La Sicilia”, Messina 1934, pag. 8.

[2] F. Paulsen, Studio per la individuazione delle varietà di pregio di uve da vino cit., 1934 circa, pag. 147.

[3] Ivi.

[4] Cfr. T. Paulsen, I vini tipici della provincia di Messina in «Enotria», settembre 1930.

[5] Ivi.

[6] T. Paulsen, I vini tipici della provincia di Messina cit., pag. 8.

[7] Ivi, pag. 7.

[8] Ivi.

[9] Tali doni emergono da un volume risalente ai primi anni Cinquanta e custodito nell’archivio della Cantina Sperimentale di Milazzo. Da tale volume, in cui è possibile conoscere alcuni aspetti dell’attività promozionale dell’ente milazzese, risulta altresì la gradazione elevata di 16,94° rilevata sul Mamertino giacente nel 1952 presso la stessa Cantina Sperimentale di Milazzo.

[10] T. Paulsen, I vini tipici della provincia di Messina cit., pag. 8.

[11] G. Bambara, Storia e folklore dei vini tipici della provincia di Messina in «L’Italia Vinicola ed Agraria», n. 6-7 del 1962.


[12] Cfr. Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana, n. 214 dell’11 settembre 2004. Si veda pure l’articolo del milazzese Gianfranco Cusumano intitolato  I produttori del Mamertino brindano alla Doc ed apparso a pag. 13 del «Sole 24 ore» (n. 41 del 26 maggio 2004).


Le notizie sopra riportate sono tratte da questo libro dello scrivente 
edito dall'editore Lombardo di Milazzo nel 2013



Come si prepara la ventre di tonno







Un ringraziamento affettuoso per queste preziose informazioni al sig. Domenico Vitale, esperto salatore, classe 1949, che ha imparato i segreti del mestiere dal padre Peppino (1926-1999), la cui pescheria, posta sino agli anni Ottanta dirimpetto l’odierno hotel “La Chicca”, era nota ai più piccoli per i fantastici modellini di navi e velieri, tra tutti una nave traghetto con tanto di auto e furgoncini a bordo lunga circa 2 metri!

 IL VIDEO: tradizionale salagione ventre di tonno




«Il procedimento ha inizio a giugno, quando le interiora vengono aperte e lavate per togliere quella che noi in gergo chiamiamo la “manciànza”, ossia i residui del cibo ingerito dal tonno», ricorda il sig. Vitale davanti alla sua bottega sita in via Pescheria. «A questo punto i ventri vengono strofinati con sale grosso ed arrotolati ciascuno come un falsomagro, per poi essere stipati e “caricati”, ossia pressati con pesi, in appositi contenitori per circa 40 giorni, al termine dei quali la ventre di tonno viene sciacquata con acqua fresca ed appesa – a seconda dei casi per un periodo che oscilla da una settimana ad un mese – per lasciarla essiccare sino a raggiungere il tradizionale colore marrone chiaro ed il tipico aspetto raggrinzito».



 Pescheria Vitale, Milazzo - ventre di tonna pronta per la vendita



Nella bottega del sig. Domenico Vitale la ventre di tonno essiccata e pronta per la commercializzazione fa bella mostra appesa ai ganci tra immagini sacre e l’immancabile statua di S. Francesco di Paola, rinvigorendo una tradizione alquanto rara in Italia, una tradizione che accumuna Milazzo a Trapani, Savona e ad altri pochi centri della Liguria. 





A titolo di memoria, la ventre di tonno, così come il lattùme e le uova (bottarga) costituivano nel gergo delle tonnare milazzesi la cosiddetta anchiùma, ossia, per dirla con le parole scritte nel 1816 dal Duca d’Ossada, l’aristocratico milazzese nonché proprietario di tonnare Francesco Carlo D’Amico, «l’inchiuma, così chiamati gli uovi, li lattumi, ventri e budella» (cfr. Osservazioni pratiche intorno la pesca, corso e cammino de’ tonni).



Francesco Carlo D’Amico, Duca d'Ossada

 Pescheria Vitale, Milazzo

 Pescheria Vitale, Milazzo



 Le ricette

Ventre di tonno

gentile concessione sig.ra Mariuccia Barbera

Dissalare la ventre a pezzetti in acqua bollente insieme ad un pezzetto di pane secco; quando l'acqua diventa fredda lavare bene la ventre. Rosolare nell'olio la cipolla affettata, aggiungere i pezzetti di ventre quindi diluire in un bicchiere mezzo cucchiaio di concentrato di pomodoro in pochi cc di acqua e versarlo nella pentola dove sta soffriggendo la ventre. Mescolare per qualche minuto e indi aggiungere mezzo litro di salsa di pomodoro (preferibilmente conserva casalinga) e un peperoncino piccante. In ultimo aggiungere circa 500-600 gr (secondo il gradimento dei commensali) di patate sbucciate e tagliate a pezzi piuttosto grossi. Cuocere per circa 45 minuti a fuoco bassissimo senza mescolare ma scuotendo il tegame piuttosto spesso.
Piatto di magro, tipico a Milazzo sulla tavola nella notte di Natale.
Buon appetito.
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VENTRI di TUNNU alla santamarinòta

ricetta originale con termini dialettali di S. Marina di Milazzo


Due o tre ore prima della preparazione, con una mannaia o coltellaccio, appoggiandosi su una base di legno apposita, tagliare strisce larghe 2-3 dita di ventre essiccata: la più pregiata è quella di tonno, che ha una cottura più lunga, ma risulta più dura e soda (tritrigna).

Sciacquare abbondantemente la ventre con acqua calda, lasciandola “a bagno” affinché si reidrati (rinvéni) e si dissali. Per facilitare la dissalatura (sdissalàri) aggiungere un pezzo di mollica e delle foglie di broccoli. Passate le ore necessarie del bagno, sciacquare abbondantemente, porla in un recipiente pieno d’acqua ed assaggiare l’acqua: se dovesse risultare ancora salata, rifare un altro bagno di dissalatura.

In un tegame abbastanza capiente soffriggere una cipolla tagliata finemente con abbondante olio. Quando la cipolla è dorata, unire la ventre e, con l’aiuto di un cucchiaio di legno, rimestarla continuamente. Appena la ventre arriccia, unire la passata di pomodoro (abbondante), 2 cucchiai di astratto di pomodoro (a piacere) ed una tazza d’acqua calda (per allungare il brodo). Salare con moderazione, visto che la ventre ne contiene già di suo, ed iniziare una cottura a fuoco basso, rimestando di tanto in tanto. Dopo circa 20-30 minuti di cottura, aggiungere delle patate tagliate a quarti ed il peperoncino intero. La ventre di tonno risulterà cotta quando riuscirete ad infilzarla con la forchetta, ossia quando trasi ‘ntà ventri. Otterrete un sugo scuro, con il quale si condiscono le spaccatelle (spaccarelle), la tipica pasta servita nel piatto fumante ed accompagnata da 2 o 3 pezzi di ventri di tunnu.

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Ventre di tonno

ricetta diffusa online da un ristoratore milazzese nel 2009 in occasione della degustazione della ventre con vino Mamertino Doc
(fonte: stradadelvinomessina.it)

Ingredienti per sei persone:
• ventresca di tonno kg.1
• patate kg.0.600
• olio extra vergine di oliva 5 cucchiai
• 3 coste di sedano
• 2cucchiai di olive salate private dal nocciolo
• 1 cucchiaio di capperi salate,
• ½ kg. di pomodoro oppure 1 bottiglia di passata di pomodoro
• peperoncino e sale, se occorre.

Preparazione
La ventre di tonno si trova sul mercato a foglie e per sua struttura e' salata, metterla in acqua per almeno tre ore e quindi tagliarla a pezzi (di solito tre pezzi formano una porzione), pulirla sotto l'acqua corrente per togliere il sale di cui e' intrisa, sbollentarla per circa 10 minuti.
Mettere in un tegame l'olio d'oliva con tre spicchi di aglio e soffriggere un poco, aggiungere le verdure, (cipolla, sedano,capperi, olive, pomodoro, peperoncino), aggiungere la ventre di tonno così' come preparata, cucinare per almeno un ora, e prima che la ventre di tonno sia pronta aggiungere le patate, chiudere il fuoco non appena le patate sono cotte.