domenica 30 novembre 2014

Le uova di tonno (bottarga)





Il loro procedimento di lavorazione venne descritto dettagliatamente dal duca d’Ossada nel lontano 1816. «Da allora è rimasto immutato», assicura l’esperto salatore milazzese Domenico Vitale. Le fasi di lavorazione descritte dall’aristocratico duca milazzese, proprietario della Tonnara di S. Giorgio di Gioiosa Marea e condomino delle Tonnara Grande del Porto di Milazzo e della Tonnarella di Vaccarella, trovano infatti applicazione ancor oggi, nella storica Pescheria di Milazzo. L’ova ‘i tunnu (bottarga), vera e propria prelibatezza della gastronomia locale, vengono grattugiate sulla pasta oppure tagliate a fettine da servire come squisito antipasto. 

 IL VIDEO




 Uova di tonno fanno bella mostra, assieme alla ventre di tonno, nella pescheria Il Norvegese di Stefano Vitale, nella foto qui sopra in mezzo accanto al padre Domenico, l'esperto salatore milazzese cui dobbiamo alcune delle informazioni qui riportate.



«La loro lavorazione ha inizio a giugno», ricorda Domenico Vitale, che aggiunge: «impiegando un imbuto si riempie ciascun uovo dall’alto con salamoia (sale grosso e acqua), avendo cura di palpeggiare per bene l’uovo in modo tale da far scorrere la salamoia al suo interno. Si lascia quindi riposare il tutto per 24 ore, trascorse le quali si fa uscire la salamoia precedentemente introdotta, strofinando successivamente ciascun uovo col sale grosso. A questo punto le uova vengono poste sotto peso, nel gergo milazzese si dice “sotto carica”, o in batteria, impiegando due grandi tavolacce, oppure singolarmente entro apposite cassettine. Per una decina di giorni alle uova, così sistemate, viene a giorni alterni sostituito il sale: quello usato viene infatti rimpiazzato da sale nuovo, col quale si strofinano l’ova ‘i tunnu. Terminata questa fase, le uova vengono lasciate sotto carica, senza subire nessun trattamento, per altri 40 giorni, terminati i quali vengono sottratte dal peso delle cariche (di norma pietre e/o sacchi di sale) ed appese ad essiccare per un periodo che oscilla dai 20 ai 40 giorni, a seconda delle dimensione delle singole uova: più sono sono grandi, più lungo sarà il tempo necessario per la loro essiccazione.  In autunno le uova così preparate sono già pronte per essere commercializzate». 


La bottarga grattugiata sulla pizza, in una ricetta di Marcello Esposito (a destra), 
ristoratore milazzese di orgini campane.


Un procedimento che corrisponde quindi a quello descritto nel 1816 dal duca d’Ossada, il quale non manca altresì di descrivere le singole fasi di macellazione del tonno. Trasferiti a terra dai palischermi, i tonni venivano infatti sottoposti alla lama affilata della mannaia, tagliando la grassa golilla, ossia la punta delle surre posta in prossimità della gola. La golilla veniva destinata alla salatura. Successivamente, impiegando la stessa mannaia, i tonni oltre un quintale di peso venivano decapitati ed appesi per la coda nella loggia (appiccatoio), dove in primo luogo venivano sciacquati con acqua di mare. Tra il prelievo della golilla e la decapitazione con la mannaia c’era una fase intermedia, ossia lo sventramento del tonno, che dunque veniva scogliato - per dirla con le parole del duca d’Ossada - ad opera di un marinaio che con un coltellaccio si metteva a cavallo del tonno, aprendolo a poco a poco per prelevare le interiora (anchiùma nel dialetto milazzese): «apre il tonno dalle sorre fino all’ombelico: leva dalla pancia l’inchiuma, così chiamati gli uovi, li lattumi, ventri e budella». Operazione eseguita da colui cui spettava scogliare il tonno, «termine che si dà per questa operazione, e si chiama scogliare li tonni, vale a dire aprirli e levare l’inchiuma da ha dentro». Un termine, scogliare, che pare essersi perduto nel tempo, oggi infatti i rigattieri milazzesi usano piuttosto la parola svintrari o piuttosto sfugghiari (sfogliare). Forse sfogliare è la proprio la corruzione di "scogliare". E' certo, comunque, che lo sventramento doveva essere eseguito da persona abile e competente, onde evitare che durante il taglio potessero danneggiarsi le interiora, che al contrario andavano prelevate integre.

Marinaio a cavallo del tonno per nèsciri anchiùma
ossia per prelevare le interiora, tra cui l'uovo di tonno
(Tonnara del Tono - Milazzo, anni Cinquanta,
fonte Li Greci, Berdar, Riccobono, Mattanza, GBM, Messina 1991)


 Decapitazione del tonno con la mannaia
(Tonnara del Tono - Milazzo, anni Cinquanta,
fonte Li Greci, Berdar, Riccobono, Mattanza, GBM, Messina 1991)



 Lavaggio del tonno appeso nell'appiccatoio (loggia) dopo la decapitazione
(Tonnara del Tono - Milazzo, anni Cinquanta,
fonte Li Greci, Berdar, Riccobono, Mattanza, GBM, Messina 1991)


 Appiccatoio della Tonnara del Tono di Milazzo, dopo l'abbandono
(Massimo Lo Curzio, L'architettura delle tonnare, Edas, Messina 1991)







Proprio durante questa fase si prelevavano nelle tonnare milazzesi le uova di tonno, opportunamente salate ed essiccate come ricorda minuziosamente lo stesso duca d’Ossada. Le uova, così come le ventri e le budella, ma anche il lattume, venivano consegnate dallo sventratore ad una persona di fiducia di padroni e rais, il capoguardia della ciurma, il quale a sua volta avrebbe consegnato le preziose interiora destinate a diventare bottarga da commercializzare «nel magazzino al curatore degli uovi, il quale li mette in sale nelle tine e poi, l’indomani, si levano dal sale e si situano sopra tavoloni fatti all’intorno del magazzino destinato per questo genere, con mettere sopra le dette tavole delle pietre per la carica: si fa uscire tutta l’acqua e l’umore che hanno dentro e di giorno in giorno si pulizzano, si mette nuovo sale e nuova carica per ridurle al proprio stato di perfezione; e quando poi sono bene induriti si levano dalla carica e legati a due si mettono nelle corde, a tale effetto situate in un magazzino per asciuttarli;  e questi uovi si vendono a tarì 12.10 ed otto il rotolo secondo sarà la pesca di quell’anno».


La mannaia impiegata a Milazzo tra le due guerre mondiali 
nella Tonnarella di S. Lucia di Stefano Del Bono



martedì 18 novembre 2014

Il Mamertino tra storia e fantasia




Intorno alla metà dell’Ottocento si fece apprezzare in Italia ed all’estero la produzione di vini da dessert, allora denominati perlopiù vini di lusso o liquorosi, della ditta Giuseppe Zirilli & F., amministrata da uno dei figli più illustri di Milazzo, il patriota Stefano Zirilli.

Quasi tutti i vini da dessert prodotti nella «fattoria Zirilli» erano ricavati dal vitigno allora coltivato quasi esclusivamente nella Piana di Milazzo, il Nocera, che rappresentava la base della produzione degli apprezzati vini da taglio e da mezzo taglio della suddetta Piana. 




Dal Nocera si ricavava dunque anche un vino liquoroso, il Mamertino, la cui denominazione rimandava inevitabilmente alle fonti dell’antichità, dalle Epistole di Giulio Cesare a Plinio e Strabone, che non mancarono di tributare sincere lodi a questo vino prodotto negli ampi possedimenti messinesi dei Mamertini. Del Mamertino prodotto da Stefano Zirilli dalle uve Nocera non si hanno ulteriori informazioni: è certo comunque che la sua produzione venne abbandonata con la cessazione dell’attività dello stesso Zirilli, soffocata tra l’altro dalle pesanti tariffe dei noli, applicate dalle compagnie di navigazione sovvenzionate dallo Stato, che rendevano poco convenienti le piccole spedizioni in casse da 25 bottiglie.



La produzione del Mamertino riprese per iniziativa della locale Cantina Sperimentale intorno alla fine degli anni Venti del Novecento. In verità, l’ente milazzese non fece altro che attribuire la denominazione “Mamertino” ad un vino liquoroso che in quegli anni si produceva nelle colline intorno a Castroreale Bagni, un vino da dessert che, a differenza degli altri vini liquorosi, non necessitava di aggiunte di alcool che ne conservassero la dolcezza e ciò rappresentava indubbiamente un notevole vantaggio economico, consentendo di risparmiare sulle spese di produzione[1]. I vini liquorosi di Castroreale - ottenuti vinificando le uve locali dei vitigni Pedro Ximenes (denominato anche Grenache bianco), Catarratto ed Inzolia - erano dolci e gradevolmente profumati[2]. Con l’invecchiamento ricordavano il Porto e raggiungevano naturalmente elevate gradazioni alcooliche, che oscillavano di norma dai 16 ai 18° e che mai scendevano al di sotto dei 15°[3].

Queste sorprendenti caratteristiche spinsero la Cantina Sperimentale di Milazzo a credere che il vino Mamertino tanto decantato dalle fonti dell’antichità fosse proprio quello liquoroso prodotto nelle colline di Castroreale[4]. Eccezionali, in particolare, erano i vini prodotti nella contrada Sulleria del suddetto comune di Castroreale[5], dove in occasione delle vendemmie 1931 vennero ottenuti, con normale fermentazione alcoolica, vini di 17,40°, in quello stesso anno esposti all’importantissima mostra vinicola di Siena, «sotto gli auspici» della Cantina Sperimentale di Milazzo[6]. «Non è certo facile spiegare quali possano essere le cause che contribuiscono ad ottenere dalle uve di quelle località una ricchezza alcoolica, diremo quasi, eccezionale», scriveva nel 1934 il direttore della locale Cantina Sperimentale Trofimo Paulsen, che precisava: «oltre la natura del terreno, l’esposizione ecc. non è forse interamente da escludersi il fatto che quel bacino orografico è ricco di polle di acque termali che hanno grandissimo valore terapeutico per la ricchezza di minerali che contengono, quali ferro, litio, zolfo e sostanze alcaline»[7]. Fu proprio sulla base di tali considerazioni, che il Regio Vivaio Governativo di Viti Americane di Palermo, diretto magistralmente da Federico Paulsen, fratello di Trofimo, decise di impiantare proprio a Castroreale, accogliendo così le istanze insistenti dello stesso Trofimo, il più importante vigneto sperimentale della provincia di Messina, ancora in esercizio nel secondo dopoguerra[8]



Il TG1 delle 20,00 del 7 aprile 2014 ha celebrato il ritorno della grande vitivinicoltura a Milazzo. Nel servizio sul Vinitaly, un'intervista a Francesca Planeta. E, per la prima volta, una bottiglia del Mamertino prodotto al Capo nei vigneti della Baronia dei Lucifero, con un'etichetta ancora appena abbozzata nella quale viene indicato l'impiego del Nocera, il vitigno milazzese da cui nell'Ottocento si ricavavano nella Piana di Milazzo - come ebbe a sostenere nel 1888 Ottavio Ottavi, mostro sacro della viticoltura - i migliori vini da taglio del mondo.

L’opera meritoria della locale Cantina Sperimentale sin dagli anni Trenta fu rivolta costantemente ad assicurare al Mamertino di Castroreale l’onore della bottiglia, favorendo contestualmente la costituzione di un «consorzio per la protezione del tipo». Furono diverse le esposizioni alla mostra di Siena di bottiglie di Mamertino imbottigliato dalla suddetta Cantina Sperimentale: oltre a quella già riferita del 1931, sono documentate esposizioni alla mostra senese nel 1939 e nel 1951. L’opera di propaganda della locale Cantina Sperimentale emerge altresì dai doni di bottiglie di Mamertino (luglio 1951) a favore di politici influenti, quali Luigi Sturzo, al quale le bottiglie vennero spedite al domicilio romano di via Mondovì, e l’on. Silvio Milazzo, che ricevette il Mamertino a Caltagirone[9].

Nonostante gli sforzi compiuti dall’ente milazzese, il consumo del Mamertino di Castroreale non riuscì comunque a scavalcare il ristretto ambito locale, dove non mancò chi, negli anni Trenta, tentò di spacciarlo per Malvasia[10]. Ciò nonostante la campagna promozionale della Cantina Sperimentale di Milazzo proseguì ancora negli anni Sessanta, quando Girolamo Bambara - ribadendo che il Mamertino di Castroreale derivava dalla vinificazione di uve Pedro Ximenes, Catarratto ed Inzolia - lo consigliava quale «compagno inseparabile dei classici dolci messinesi: la “pignolata”, il “torrone gelato”, i dolcissimi “cannoli” e la “Cassata alla Siciliana”, completano l’euforia conviviale quando è servito a fine pasto, dopo i dolci o al dessert, a temperatura di ambiente, in classici bicchieri a calice trasparente dalla bocca ristretta perché meglio se ne possa apprezzare il “bouquet”»[11]. Proprio negli anni Sessanta la Cantina Sperimentale di Milazzo aveva fatto stampare su uno sfondo giallognolo un’elegante nuova etichetta, da applicare sulle bottiglie di propria produzione, in cui il vino prodotto nelle colline di Castroreale veniva presentato con la gradazione alcoolica di 15° e con queste parole: «il Mamertino è un vino classico che opportunamente invecchiato è da preferirsi, per le sue caratteristiche, a fine pasto o al dessert».

Bottiglie di Mamertino in esposizione c/o lo spazio museale sulla 
Piana di Milazzo allestito nell'ex Carcere Femminile di Milazzo (Ican "Domenico Ryolo")

Recentemente si è registrata una rinascita del Mamertino. Sulla scia delle iniziative promosse in passato dalla Cantina Sperimentale di Milazzo, per iniziativa del presidente della sede milazzese della Confederazione Italiana Agricoltori (Cia) Biagio Cacciola e di alcuni tecnici e produttori locali, in particolare i Vasari di Santa Lucia del Mela, intorno al 2001 è stata avviata la pratica rivolta al riconoscimento dell’ambita denominazione di origine controllata (Doc), ottenuta con decreto adottato dal Ministro delle Politiche Agricole e Forestali in data 3 settembre 2004, decreto in cui è stata approvato altresì il relativo disciplinare di produzione[12]. Sinceramente desta non poche perplessità il riconoscimento della Doc ad un vino, impropriamente denominato «Mamertino di Milazzo», che quasi nulla possiede delle caratteristiche indicate in precedenza e riguardanti le produzioni delle colline di Castroreale. Il decreto disciplina non vini da dessert, quali erano appunto il Mamertino di Castroreale o quello prodotto a metà Ottocento da Stefano Zirilli, bensì vini da pasto, prodotti - senza l’utilizzo delle uve Pedro Ximenes di Castroreale, ma con l’impiego, tra l’altro, del Nocera di Zirilli - nelle tipologie Bianco, Bianco Riserva, Rosso, Rosso Riserva, Calabrese o Nero d’Avola, Calabrese o Nero d’Avola Riserva e Grillo-Ansonica.

Nonostante il Mamertino di Milazzo Doc sembri piuttosto un’artificiosa e fantasiosa creazione dei giorni nostri, va comunque riconosciuto, a quanti si sono adoperati al fine di ottenere la concessione della Doc, il merito indiscusso di aver tentato di rilanciare la produzione vinicola di Milazzo e dintorni. D’altra parte, tornando alle fantasie, occorre precisare che queste non mancarono nemmeno a Trofimo Paulsen ed ai propri collaboratori, allorquando nei lontani anni Venti decisero di attribuire la denominazione «Mamertino» - ricavata dalle fonti dell’antichità - al vino prodotto nelle colline di Castroreale.

 



[1] T. Paulsen, I vini tipici della provincia di Messina, Grafiche “La Sicilia”, Messina 1934, pag. 8.

[2] F. Paulsen, Studio per la individuazione delle varietà di pregio di uve da vino cit., 1934 circa, pag. 147.

[3] Ivi.

[4] Cfr. T. Paulsen, I vini tipici della provincia di Messina in «Enotria», settembre 1930.

[5] Ivi.

[6] T. Paulsen, I vini tipici della provincia di Messina cit., pag. 8.

[7] Ivi, pag. 7.

[8] Ivi.

[9] Tali doni emergono da un volume risalente ai primi anni Cinquanta e custodito nell’archivio della Cantina Sperimentale di Milazzo. Da tale volume, in cui è possibile conoscere alcuni aspetti dell’attività promozionale dell’ente milazzese, risulta altresì la gradazione elevata di 16,94° rilevata sul Mamertino giacente nel 1952 presso la stessa Cantina Sperimentale di Milazzo.

[10] T. Paulsen, I vini tipici della provincia di Messina cit., pag. 8.

[11] G. Bambara, Storia e folklore dei vini tipici della provincia di Messina in «L’Italia Vinicola ed Agraria», n. 6-7 del 1962.


[12] Cfr. Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana, n. 214 dell’11 settembre 2004. Si veda pure l’articolo del milazzese Gianfranco Cusumano intitolato  I produttori del Mamertino brindano alla Doc ed apparso a pag. 13 del «Sole 24 ore» (n. 41 del 26 maggio 2004).


Le notizie sopra riportate sono tratte da questo libro dello scrivente 
edito dall'editore Lombardo di Milazzo nel 2013



Come si prepara la ventre di tonno







Un ringraziamento affettuoso per queste preziose informazioni al sig. Domenico Vitale, esperto salatore, classe 1949, che ha imparato i segreti del mestiere dal padre Peppino (1926-1999), la cui pescheria, posta sino agli anni Ottanta dirimpetto l’odierno hotel “La Chicca”, era nota ai più piccoli per i fantastici modellini di navi e velieri, tra tutti una nave traghetto con tanto di auto e furgoncini a bordo lunga circa 2 metri!

 IL VIDEO: tradizionale salagione ventre di tonno




«Il procedimento ha inizio a giugno, quando le interiora vengono aperte e lavate per togliere quella che noi in gergo chiamiamo la “manciànza”, ossia i residui del cibo ingerito dal tonno», ricorda il sig. Vitale davanti alla sua bottega sita in via Pescheria. «A questo punto i ventri vengono strofinati con sale grosso ed arrotolati ciascuno come un falsomagro, per poi essere stipati e “caricati”, ossia pressati con pesi, in appositi contenitori per circa 40 giorni, al termine dei quali la ventre di tonno viene sciacquata con acqua fresca ed appesa – a seconda dei casi per un periodo che oscilla da una settimana ad un mese – per lasciarla essiccare sino a raggiungere il tradizionale colore marrone chiaro ed il tipico aspetto raggrinzito».



 Pescheria Vitale, Milazzo - ventre di tonna pronta per la vendita



Nella bottega del sig. Domenico Vitale la ventre di tonno essiccata e pronta per la commercializzazione fa bella mostra appesa ai ganci tra immagini sacre e l’immancabile statua di S. Francesco di Paola, rinvigorendo una tradizione alquanto rara in Italia, una tradizione che accumuna Milazzo a Trapani, Savona e ad altri pochi centri della Liguria. 





A titolo di memoria, la ventre di tonno, così come il lattùme e le uova (bottarga) costituivano nel gergo delle tonnare milazzesi la cosiddetta anchiùma, ossia, per dirla con le parole scritte nel 1816 dal Duca d’Ossada, l’aristocratico milazzese nonché proprietario di tonnare Francesco Carlo D’Amico, «l’inchiuma, così chiamati gli uovi, li lattumi, ventri e budella» (cfr. Osservazioni pratiche intorno la pesca, corso e cammino de’ tonni).



Francesco Carlo D’Amico, Duca d'Ossada

 Pescheria Vitale, Milazzo

 Pescheria Vitale, Milazzo



 Le ricette

Ventre di tonno

gentile concessione sig.ra Mariuccia Barbera

Dissalare la ventre a pezzetti in acqua bollente insieme ad un pezzetto di pane secco; quando l'acqua diventa fredda lavare bene la ventre. Rosolare nell'olio la cipolla affettata, aggiungere i pezzetti di ventre quindi diluire in un bicchiere mezzo cucchiaio di concentrato di pomodoro in pochi cc di acqua e versarlo nella pentola dove sta soffriggendo la ventre. Mescolare per qualche minuto e indi aggiungere mezzo litro di salsa di pomodoro (preferibilmente conserva casalinga) e un peperoncino piccante. In ultimo aggiungere circa 500-600 gr (secondo il gradimento dei commensali) di patate sbucciate e tagliate a pezzi piuttosto grossi. Cuocere per circa 45 minuti a fuoco bassissimo senza mescolare ma scuotendo il tegame piuttosto spesso.
Piatto di magro, tipico a Milazzo sulla tavola nella notte di Natale.
Buon appetito.
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VENTRI di TUNNU alla santamarinòta

ricetta originale con termini dialettali di S. Marina di Milazzo


Due o tre ore prima della preparazione, con una mannaia o coltellaccio, appoggiandosi su una base di legno apposita, tagliare strisce larghe 2-3 dita di ventre essiccata: la più pregiata è quella di tonno, che ha una cottura più lunga, ma risulta più dura e soda (tritrigna).

Sciacquare abbondantemente la ventre con acqua calda, lasciandola “a bagno” affinché si reidrati (rinvéni) e si dissali. Per facilitare la dissalatura (sdissalàri) aggiungere un pezzo di mollica e delle foglie di broccoli. Passate le ore necessarie del bagno, sciacquare abbondantemente, porla in un recipiente pieno d’acqua ed assaggiare l’acqua: se dovesse risultare ancora salata, rifare un altro bagno di dissalatura.

In un tegame abbastanza capiente soffriggere una cipolla tagliata finemente con abbondante olio. Quando la cipolla è dorata, unire la ventre e, con l’aiuto di un cucchiaio di legno, rimestarla continuamente. Appena la ventre arriccia, unire la passata di pomodoro (abbondante), 2 cucchiai di astratto di pomodoro (a piacere) ed una tazza d’acqua calda (per allungare il brodo). Salare con moderazione, visto che la ventre ne contiene già di suo, ed iniziare una cottura a fuoco basso, rimestando di tanto in tanto. Dopo circa 20-30 minuti di cottura, aggiungere delle patate tagliate a quarti ed il peperoncino intero. La ventre di tonno risulterà cotta quando riuscirete ad infilzarla con la forchetta, ossia quando trasi ‘ntà ventri. Otterrete un sugo scuro, con il quale si condiscono le spaccatelle (spaccarelle), la tipica pasta servita nel piatto fumante ed accompagnata da 2 o 3 pezzi di ventri di tunnu.

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Ventre di tonno

ricetta diffusa online da un ristoratore milazzese nel 2009 in occasione della degustazione della ventre con vino Mamertino Doc
(fonte: stradadelvinomessina.it)

Ingredienti per sei persone:
• ventresca di tonno kg.1
• patate kg.0.600
• olio extra vergine di oliva 5 cucchiai
• 3 coste di sedano
• 2cucchiai di olive salate private dal nocciolo
• 1 cucchiaio di capperi salate,
• ½ kg. di pomodoro oppure 1 bottiglia di passata di pomodoro
• peperoncino e sale, se occorre.

Preparazione
La ventre di tonno si trova sul mercato a foglie e per sua struttura e' salata, metterla in acqua per almeno tre ore e quindi tagliarla a pezzi (di solito tre pezzi formano una porzione), pulirla sotto l'acqua corrente per togliere il sale di cui e' intrisa, sbollentarla per circa 10 minuti.
Mettere in un tegame l'olio d'oliva con tre spicchi di aglio e soffriggere un poco, aggiungere le verdure, (cipolla, sedano,capperi, olive, pomodoro, peperoncino), aggiungere la ventre di tonno così' come preparata, cucinare per almeno un ora, e prima che la ventre di tonno sia pronta aggiungere le patate, chiudere il fuoco non appena le patate sono cotte.

 

lunedì 10 novembre 2014

PROPOSTA - Un Museo del Mare nei locali dell'ex Istituto d'Arte



Un Museo del Mare nei locali del convento di S. Francesco di Paola, già sede dell’Istituto d’Arte. Una soluzione provvisoria che consentirebbe di usufruire nell’immediato di vasti locali in cui raccogliere e custodire reperti che, in attesa del costosissimo restauro del diruto asilo Calcagno di Vaccarella, rischierebbero di andare irrimediabilmente perduti, compromettendo così la collezione museale che un domani dovrà essere esposta proprio nell’ex asilo di Vaccarella. Sono tanti i Milazzesi, perlopiù abitanti del Tono e di Vaccarella, che sarebbero disposti a mettere a disposizione dello scrivente antichi reperti marinari, alcuni davvero pregevoli e piuttosto rari. Mancano purtroppo i locali in cui esporli o custodirli in attesa di un’esposizione futura: gli unici a disposizione, le piccole sale dell’ex Carcere Femminile di via Impallomeni o il minuscolo spazio concesso in piazza Caio Duilio all’associazione Tono Solemare, sono ormai saturi e pieni zeppi di reperti. A malincuore chi scrive si trova pertanto costretto a dover rifiutare interessanti collezioni di reperti marinari autenticamente milazzesi.





Sebbene inseriti dall’Amministrazione Pino nell’elenco degli «immobili di proprietà comunale che dovranno essere suscettibili di valutazione o dismessi nel triennio 2012-2014», gli ampi locali del convento di S. Francesco, già sede dell’Istituto d’arte, sarebbero ideali per ospitare nuovi reperti marinari. S. Francesco di Paola è infatti il protettore della gente di mare. I locali, che si affacciano sul mare e sul rione di Vaccarella e che si trovano nel bel mezzo dell’itinerario storico-artistico di beni culturali del Borgo che dall’Antiquarium archeologico giunge sino al Castello, verrebbero inoltre sottratti al degrado, destinato inevitabilmente a lievitare, compromettendo così il prezzo di realizzo del bene immobile in caso d’asta. A tal proposito conviene ricordare il caso esemplare dell’ex mattatoio di Fiumarella, posto in vendita sin dal 2008, ma non ancora venduto: le aste sono andate puntualmente deserte, il bene immobile nel frattempo si è deteriorato sempre di più e con la crisi attuale che mette in ginocchio il mercato immobiliare sarà destinato a restare nella disponibilità del Comune di Milazzo chissà per quanti anni ancora. Stessa sorte sta toccando all’ex convento di S. Francesco di Paola, già preso di mira da atti vandalici e dove l’umidità la fa da padrona.

La recente gestione dell’ex Carcere Femminile rappresenta indubbiamente un caso positivo di sano ed intelligente recupero – disposto dall’Amministrazione comunale ed a costo zero per le casse dell’ente - di locali che nel frattempo erano stati abbandonati al degrado. Bene farebbe dunque l’Amministrazione a concedere in comodato alle associazioni culturali anche questi locali, consentendo tra l’altro una costante e continua fruizione del prezioso mosaico recentemente riscoperto grazie alla stessa Amministrazione ed alle associazioni Italia Nostra e SiciliAntica.  Una scelta che doterebbe nel contempo la città di un nuovo inedito spazio museale, in cui poter finalmente onorare anche l'eroico Luigi Rizzo, uomo-simbolo della marineria milazzese. Nulla osta ovviamente di sciogliere il comodato nel momento in cui il bene sarà un domani aggiudicato ad un privato, anche se la natura del bene e la sua posizione strategica suggerirebbero all’Amministrazione di tornare sui propri passi, sottraendo l’immobile, così come il Convento dei Cappuccini, alle dolorose politiche di dismissione.

La tunnìna, alimento tipico di Milazzo





Insieme al vino ricavato dal vitigno tradizione della Piana, il Nocera, è indubbiamente la tipica specialità della gastronomia milazzese. La tunnina salata è l’alimento che persino Garibaldi ha mangiato a Milazzo, precisamente a Vaccarella, sui gradini di S. Maria Maggiore, davanti ad un inorridito Giuseppe Bandi che obiettava l’orario dell’insolito pasto: erano infatti le 6,30 del 21 luglio 1860 ed il Generale, dopo aver trascorso sul sagrato della chiesa l’intera notte, per rinfrancarsi delle fatiche della battaglia appena conclusa, decise di concedersi per colazione, piuttosto che un’introvabile tazza di latte, il nostro alimento tipico, la tunnina, che innaffiò con una bottiglia di vino sottratta, nelle ore immediatamente successive ai combattimenti, alla cantina di una dimora aristocratica del disabitato centro cittadino.






Prima dell’avvento delle conserve all’olio (seconda metà dell’Ottocento, quando da Genova giunsero imprenditori e tecnici espertissimi ad impiantare i primi stabilimenti per l’inscatolamento del tonno sott’olio), la salatura rappresentava il tipico procedimento di conservazione del tonno pescato nelle 6 tonnare milazzesi.

I nostri avi si distinsero ben presto nella salatura del pescato che non si consumava fresco. Documenti d’archivio attestano la preparazione di tonnina in tempi lontani. Nel 1105 una delle tonnare milazzesi era obbligata a donare annualmente alcuni barili di tonnina ad un monastero del comprensorio. Scrive Stefano Zirilli nel 1873: «Le salamoie di Milazzo sono in commercio le più reputate d’Italia, o perché l’arte dei nostri salatori è più perfezionata, o per l’influenza occulta del clima, certo è che i suoi prodotti sono apprezzati e pagati con preferenza».

Il “magazzino del sale” era uno degli immancabili locali delle nostre tonnare. Le scorte di sale erano abbastanza imponenti, proprio per far fronte alla lavorazione destinata perlopiù al consumo locale, ma anche alla Calabria e ad altri mercati italiani. Stipata nei tradizionali barili di legno ad un sol fondo (cugni e cugnètti), realizzati dai bottai milazzesi con tanto di disco da impiegare nella pressatura necessaria in fase di lavorazione, era ancora un alimento abituale nella Milazzo dei più recenti anni Settanta. Immancabile nelle perdute taverne cittadine, per accompagnare il vino che vi si vendeva, e sulle tavole dei Milazzesi nei pasti della vigilia di Natale.

Oggi la tonnina la prepara di norma qualche anziano pescatore per uso familiare, soprattutto in vista del cenone di Natale, almeno di quello dei più tradizionalisti: si sciacqua per dissalarla e si serve in tavola con aceto e/o qualche filo d’olio d’oliva. Sarebbe auspicabile un rispolvero della tradizione, facendo tornare questa nostra specialità tra i tavoli dei nostri ristoranti anche in chiave turistica.



TRA STORIA E PRESENTE: IL PROCEDIMENTO DI LAVORAZIONE - La tonnina salata è uno dei prodotti ancor oggi preparati e venduti dalla pescheria “Il Norvegese” gestita da Domenico Vitale, esperto salatore milazzese nato nel 1949, e dal figlio Stefano. «La preparazione della tonnina salata ha inizio nel mese di giugno» riferisce Domenico, che non manca di ricordare come la salatura delle tonnine fosse una delle attività prevalenti nelle tonnare milazzesi. In passato, al Tono e negli altri impianti di pesca del tonno dislocati lungo le coste di Milazzo, una quota del pescato veniva immediatamente destinata alla salatura. Le tonnine salate venivano vendute localmente ed anche al di fuori della Sicilia, in Calabria per esempio. Ne fanno fede alcuni atti contrattuali stipulati dal notaio Vittorio Tavilla di Pizzo Calabro, oggi custoditi presso l’Archivio di Stato di Vibo Valentia: si evince così che il salatore milazzese patron Onofrio Marino custodiva nel novembre 1755 nella marina di Pizzo una certa quantità di barili di tunnina salata. Nell’estate del 1751 lo stesso Marino risultava nella marina di Pizzo intento a “salimorare” i barili «di robba salata» proveniente da Paola, di cui avrebbe dovuto assicurare il mantenimento per conto dell’aristocratico milazzese don Cesare Mariano D’Amico» (cfr. atto del notaio V. Tavilla concluso in data 16 settembre 1751 e citato in S. Di Bella, G. Iuffrida, Di terra e di mare, Rubbettino ed., Soveria Mannelli 2004, pag. 363).


Ancora oggi a Milazzo i pochi salatori, appena qualche pescatore di Vaccarella e qualche rigattiere, continuano a preparare la tonnina salata, perlopiù per uso familiare ed in vista del periodo natalizio, quando questa specialità viene ricercata dai milazzesi più tradizionalisti, quelli attaccati alle proprie radici ed origini, che appunto impongono di rinnovare il rito del Natale servendo a tavola la tonnina salata.

Milazzo città delle tonnare e delle tonnine. 7 settembre 1742, l'aristocratico milazzese Don Antonino Proto vende 100 barili di tonnina prodotta in una delle sue tonnare di Milazzo (Archivio privato).



E nel passato recente non è mancato qualche rigattiere che, pur di non sprecare il tonno invenduto già interessato da fenomeni di deterioramento (‘u vémmu), ha deciso di ricorrere proprio alla salatura, trasformando così il tonno rimasto invenduto sui banchi della pescheria in prelibata tonnina salata, tanto «’u sali ‘mmazza ‘u vémmu».



«Tutto è possibile, a patto che si tratti di tonno fresco: che nessuno pensi di destinare alla salatura pesce congelato in precedenza, significherebbe contravvenire alle più elementari norme di salatura», ammonisce l’esperto salatore Domenico Vitale, che non manca di descrivere succintamente il secolare procedimento di salatura della tonnina: «viene ridotta in piccoli tranci strofinati con sale grosso, ai giorni nostri stipati in piccoli mastelli di plastica. La tonnina viene quindi pressata per un periodo di 20 giorni, favorendo così la fuoriuscita dei liquidi di scarto, perlopiù sangue. Viene in seguito trattata nuovamente col sale e collocata in scatole di latta, in cui ‘a tunnìna viene ancora una volta “caricata”, ossia pressata per altri 40 giorni con pietre da 30-40 kg. Al termine di questi 40 giorni è già pronta per la commercializzazione. Un tempo la tonnina salata si mangiava in tempo di vendemmia e durante il raccolto delle olive e non mancava chi a marzo la gustava nell’impasto delle “sfinci” di S. Giiuseppe». Sin qui la descrizione appassionata del sig. Vitale, che non manca di manifestare l’amarezza riscontrata durante l’ultima stagione: «l’anno scorso avevo preparato 15 kg di tonnina salata. Quest’anno ho preferito soprassedere a causa degli scarsi risultati conseguiti nelle vendite del 2013: qui a Milazzo, ahimé, la consumazione del prodotto diventa sempre più rara, i giovani ‘a tunnìna non sanno nemmeno cosa sia, a differenza, invece, di S. Lucia del Mela, dove questa specialità milazzese è richiesta ancora dai palati legati ai gusti della tradizione».


'A tunnìna salata. Una tradizione secolare, che rivive anche grazie alla passione di don Fano Foti, esperto salatore milazzese che rinnova anno dopo anno l'antica specialità delle nostre tonnare, producendone un piccolo quantitativo per uso familiare. Il 28 novembre 2014, in Pescheria, grazie alla disponibilità del figlio Salvatore (nella foto), abbiamo fotografato un pezzettino di tunnìna e la boccia in vetro in cui viene custodita.
  
 
 
 


Di seguito le foto della tonnina preparata per uso familiare dal sig. Saverio Caravello nell'omonima pescheria di Milazzo


Il sig. Saverio Caravello, esperto salatore milazzese


Il tradizionale coperchio da cugnetto su cui si poggiano i pesi (cariche)




Particolare di un trancio di tonnina preparata dal sig. Caravello



Il sig. Caravello mostra anche i pesantonelli sotto sale, qui sotto ne abbiamo fotografato uno accanto ad un trancio di tonnina salata. I pesantonelli vengono salati in questo caso con tanto di lisca.